La rubrica in collaborazione con il nostro partner Infinito Viaggi
SAN PIETROBURGO
di Rossella Frosali
La prima volta che presi coscienza dell’esistenza di San Pietroburgo, allora si chiamava ancora Leningrado, fu quando, agli inizi degli anni ’80, il mio amico Sandro si innamorò, artisticamente parlando, di Franco Battiato. Il nastro della musicassetta del suo successo dell’epoca si riannodava all’infinito nell’autoradio durante le nostre gite fuori porta. Le note e le parole dell’artista ci trasportavano negli inverni gelidi trafitti da raffiche di vento, chiare allegorie di un buio passato, verso le immagini incantate dei balletti russi, dentro gli spartiti di geni della musica e fra le parole di filosofi armeni. La nostra curiosità di giovani affamati era stata accesa ed il tarlo della conoscenza aveva scavato il suo tunnel dal quale sarebbe riemerso in maniera prorompente alla prima occasione.
Arrivo all’aeroporto Pulkovo, da qui in bus fino alla Stazione della metro Moskovskij, forse la stazione principale della città da dove, tra l’altro, partono i treni per Mosca, Tallin ed i pullman per la Finlandia.
La prima tappa non può essere che la Prospettiva Nevski; certo, non mi aspetto di incontrare come il maestro, anche se metaforicamente, Igor Stravinsky, trovo bensì l’essenza della città, tanta gente, negozi, belle piazze, palazzi storici, chiese. Il viale è lungo 4,5 km, bisogna abituarsi perché San Pietroburgo è una città dalle distanze immense, è una città di mare, ma il mare non si vede.
La sua storia è recente, fu costruita nel 1703 sul paludoso delta del fiume Neva da Pietro I il Grande, all’anagrafe Pietro Alekseevič Romanov, un imperatore considerato illuminato ed in omaggio al quale è stato eretto, sulla piazza del Senato, un monumento equestre, una statua di bronzo alta 6 metri che lo raffigura a dorso di un cavallo impennato.
Puskin, padre della letteratura e della lingua russa, affermò che costruendo la città, Pietro I il Grande, diede alla Russia una finestra sull’Europa, cogliendo appieno le intenzioni dello zar.
Il primo nucleo ad essere costruito, sull’isola di Zayachy o Isola delle Lepri, una delle tante nel delta del fiume, fu la fortezza con all’interno la Cattedrale di San Pietro e Paolo. Per entrare passo attraverso la porta di Pietro sovrastata dall’aquila bicipite, simbolo degli zar. Cammino per i viali e non posso non pensare che in questo luogo sono stati incarcerati i più grandi pensatori, rivoluzionari e poeti della storia russa da Dostoevskij a Gorkij, da Bakunin a Trotskij, da Aleksandr, il fratello maggiore di Lenin a Alksej, figlio di Pietro I il Grande.
Qualcuno ha definito San Pietroburgo “il sogno proibito di ogni studente di architettura”. Dalla sua costruzione fino ai primi anni del XX secolo, ogni zar che si è succeduto da Pietro I il Grande a Nicola II, ha dato impulso al cambiamento affiancando ai vecchi edifici, nuove costruzioni realizzate secondo la moda del momento. Passeggiando per la città si coglie questa armoniosa commistione di stili che va dal Barocco della Cattedrale di San Pietro e Paolo, al tardo Barocco del Palazzo d’Inverno, allo Stile impero, al Neoclassicismo, al Liberty dell’imponente Cattedrale di Sant’Isacco.
Fa caldo e mi serve un bel Kvas ghiacciato prima di dedicare la giornata al Palazzo d’Inverno, sede del Museo dell’Hermitage. La visita comincia già dall’esterno, in quanto la bellezza del palazzo si può ammirare sia dalla Piazza del Popolo che dal Lungo Neva.
Il Palazzo è una chiara testimonianza della magnificenza dell’epoca d’oro della Russia, residenza degli Zar e della nobiltà, fino alla Rivoluzione di Ottobre del 1917. Cammino per i corridoi passando di sala in sala e so dare una priorità tra l’ammirare le collezioni espositive o il godere dello splendore delle sue sale.
Una tappa al Caffè Letterario è sempre d’obbligo. Si dice che qui Puskhin aspettò il suo padrino prima di recarsi al duello dove perse la vita. Con un impeccabile servizio in guanti bianchi mi servono manzo allo Stroganoff e Koryushka. Si lo so, non mischio mai pietanze a base di carne e di pesce, ma sono in vacanza.
Ritorno sui miei passi e arrivo alla Fontanka. Mi sembra di vederla Nasten’ka, “addossata alla ringhiera del canale”, e proprio lei, Nasten’ka sarà la mia guida immaginaria. Con lei passeggio per la Piccola Venezia, giro intorno alle colonne rostrate della Strel’ka, attraverso l’antico Ponte Blu, mi siedo nella platea del Teatro Mariinsky per ammirare la leggiadria del balletto russo, io che mi emoziono solo a vedere un tutù indossato da un manichino, e poi ancora chiese, palazzi, ponti.
E Nasten’ka mi racconta di come è la sua città in inverno, coperta da uno spesso manto di neve, di come la cupola dorata della chiesa del Salvatore del Sangue Versato si rifletta sul candore dei dintorni, delle passeggiate sui canali ghiacciati, delle pattinate sulle innumerevoli piste sparse per la città, e poi il bello di riscaldarsi in uno dei tanti locali con una tazza di tè e una soffice fetta di torta.
In inverno la città è incantata tanto da assomigliare ad una scenografia teatrale, le sue piazze potrebbero senz’altro diventare la scenografia dello Schiaccianoci. Chissà se Cajkovskij tradusse in musica questo incanto.
До свидания и спасибо Санкт-Петербург (Do svidaniya i spasibo Sankt Peterburg) – arrivederci e grazie San Pietroburgo
IL MIO IRAN
di Rossella Frosali
Febbraio 2016
Sono partita per l’Iran in una calda giornata d’inverno con il timore dettato dalle frammentate notizie che ci arrivano dai nostri mass media. Il volo dell’Iran Air parte dall’aeroporto di Milano Malpensa in perfetto orario ed arriva a Teheran con un quarto d’ora di anticipo. Indosso subito il velo non appena l’aeromobile tocca terra e, da quel momento, l’unica mia preoccupazione è quella di non farlo scivolare via. Il finger mi catapulta nell’avveniristico aeroporto internazionale Imam Khomeini, fatto di luci e metallo, che nulla ha da invidiare ai più futuristici aeroporti delle città orientali. Qui, circondata dalle genti del posto, da subito percepisco la netta differenza fra gli arabi ed i persiani. Belle le donne persiane, con un maquillage raffinato, avvolte in soprabiti colorati, rigorosamente di media lunghezza, e con i lunghi capelli, raccolti in chignon, coperti da Hijab di preziose stoffe colorate; le donne arabe invece indossano il loro chador nero che le copre dalla testa fino alle caviglie. Gli uomini, in Iran, salvo alcuni casi sporadici, passano veramente in secondo piano.
Con un pullman di lusso raggiungo Tehran, una megalopoli caotica, congestionata da un intenso ma scorrevole traffico dove le strisce pedonali, come ci dice la nostra guida Massoud, sono un puro elemento decorativo; eppure questa grande città nasconde dei piccoli gioielli come il Museo archeologico e il tesoro custodito nel caveau della Central Melli Bank, aperto saltuariamente e che ho il privilegio di visitare. Gioielli di inestimabile valore, come il Darya-i-Noor (Mare di Luce) un diamante rosa da 182 carati, pietre preziose, corone, collier e monili tempestati di diamanti, smeraldi, rubini, turchesi e perle di tutte le grandezze; se l’Iran dovesse essere distrutto, questo tesoro sarebbe sufficiente per ricostruirlo interamente. Con un’ora di volo raggiungo Shiraz, la città dei poeti, del vino e dei fiori e mi immagino come possa essere questa città in primavera, quando i suoi roseti sono in fiore, o in autunno, quando la magia del foliage veste i suoi lunghi viali. Per il momento mi godo il caleidoscopio dei colori prodotti dai raggi del sole che, al mattino, trafiggono le vetrate colorate della piccola Moschea di Nasir al Muk, un luogo che ispira pace e serenità. L’imperdibile passeggiata nel Vakil Bazar, uno dei più antichi dell’Iran, mi stordisce con i suoi colori, i suoi profumi; mi perdo fra tappeti e stoffe colorate e luccicanti e mi chiedo a chi vengano vendute, dato il rigido dettame religioso nell’abbigliamento. Poi noto tante donne, che scopro essere nomadi, con abiti coloratissimi che si intravedono sotto i chador neri e questo rafforza la convinzione che l’Iran è un Paese tutto da scoprire.
Al pomeriggio, quando il sole scende all’orizzonte e le rocce del deserto si colorano di rosa, sono a Persepoli, una magnificenza che ci arriva, frammentata, da un passato glorioso; qui, in quello che rimane dell’antico palazzo dove si è fatta la storia del mondo, rivedo Dario che riceve gli ambasciatori ed Alessandro che appicca il fuoco per distruggerlo. Poco più in là visito Pasargade, la necropoli achemenide, con le tombe di Ciro il Grande, di Dario, di Serse e Artaserse; un’immagine scolpita nella roccia di Valeriano in catene, mi ricorda che anche Roma ha dovuto sottostare a questa antica potenza.
Percorro una bella autostrada che corre lungo un nulla fatto di montagne rocciose, di sassi e di silenzi tangibili ed arrivo a Yazd, un’antichissima città che vanta 3000 anni di storia. La città sacra dell’Iran, culla dello Zoroastrismo, un misto di filosofia e religione basato sugli insegnamenti di Zarathustra. Una permanenza a Yazd breve ma intensa. Passeggio per i vicoli della città vecchia colorati dell’ocra dei muri delle case costruiti con argilla e paglia, mi inerpico, non senza fatica, sulla collina delle Torri del Silenzio, dove i seguaci di Zarathustra portavano i propri defunti affinchè gli avvoltoi ne ripulissero le ossa prima della sepoltura, per non contaminare la terra, visito un interessante museo dell’acqua che spiega come venivano costruiti i qanat, una rete idrica che succhiava l’acqua dalle viscere di questo angolo arso della Terra e la trasportava nelle case, assaggio i dolci della pasticceria più antica e famosa dell’Iran e, sono già a Isfahan. “L’altra metà del cielo”, così è considerata Isfahan, una bellissima città adagiata sulle rive del fiume Zayandeh, la città simbolo dell’Islam e capitale dello Scià Abas. È venerdì, giornata festiva per l’Islam, i parchi ed i giardini lungo le rive del fiume sono pieni di famigliole che consumano, seduti a terra, la loro colazione al sacco. Immersa tra la folla, attraverso a piedi lo spettacolare ponte detto “dei 33 archi” ed arrivo nella grande Piazza Imam Khomeini. Anche qui, come pochi giorni prima a Shiraz, mi voglio immaginare la primavera in questo angolo di deserto, quando il profumo delle rose inebria l’aria e si mischia con lo scroscio dell’acqua delle tante fontane della piazza. In questo giorno di festa carrozzelle trainate da cavalli scorrazzano turisti e locali. Mi attardo davanti alle vetrine dei tanti negozi che espongono bella mercanzia di artigianato locale, ignara dei sedici chilometri di bazar che si snodano tutto intorno. Poi quello che già da lontano attira la mia attenzione è la magnificenza architettonica e decorativa delle moschee che si affacciano sulla piazza. I colori predominati sono il blu, il bianco e il giallo che, come in un puzzle maiolicato, si incastrano, si intrecciano e si abbracciano per dare vita ad un’armonia ipnotica di geometrie e calligrafia.
Sono arrivata alla fine del viaggio, riparto con la consapevolezza di aver assaggiato solo una briciola della grande torta che è l’Iran, con la sua storia, con i suoi colori, con i suoi contrasti e con la sua gente ospitale che ti guarda, ti sorride e ti dice, a volte in un inglese perfetto e a volte un po’ meno, “welcome to Iran”.